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Influencer marketing: strategia o narcisismo?

C’è un paradosso che attraversa il marketing contemporaneo: più soldi vengono investiti in influencer, meno chi li paga sa dire se servano davvero a qualcosa.

Il nuovo Influencer Marketing Maturity Model Report pubblicato da SAMY lo conferma senza mezzi termini: il 50% dei marketer non riesce a provare il ROI delle campagne, il 48% non sa come trasformare i contenuti in vendite, e il 60% ammette di non riuscire nemmeno a scegliere i creator giusti. Eppure, gli investimenti continuano a salire: secondo Statista, il mercato globale degli influencer supererà i 22 miliardi di dollari nel 2025, più del doppio rispetto al 2020.

Il 50% dei marketer non riesce a provare il ROI delle campagne, il 48% non sa come trasformare i contenuti in vendite, e il 60% ammette di non riuscire nemmeno a scegliere i creator giusti.

Perché? La spiegazione ufficiale è semplice: i consumatori non si fidano più della pubblicità tradizionale e preferiscono la “voce autentica” dei creator. Ma è qui che nasce il dubbio: quanto c’è di reale in questo ragionamento e quanto invece è il risultato di un’industria che giustifica la propria esistenza?

L’industria che si autoalimenta

Le agenzie hanno tutto l’interesse a raccontarci che l’influencer marketing è la nuova pietra angolare della strategia digitale. I PR ci costruiscono carriere, i media ci riempiono interviste patinate in cambio di campagne pubblicitarie, e i “talent” monetizzano con cachet sempre più alti. Alla fine, il cerchio si chiude: chi dovrebbe chiedere conto dei risultati è lo stesso che ha contribuito a costruire il mito.

Per i brand, però, la matematica è meno entusiasmante. Una parte della visibilità resta, certo. Ma la vera fetta di valore spesso si disperde tra agenzie, piattaforme e influencer stessi. Per il cliente finale – quello che dovrebbe vendere un prodotto o rafforzare la reputazione – resta spesso poco più di un post carino, qualche vanity metric, e la vaga speranza che la brand awareness si trasformi un giorno in vendite reali.

L’Italia: scandali, saturazione e anti-consumismo

Il report dedica un capitolo interessante al nostro Paese. Qui il settore, nonostante la ribalta internazionale di figure come Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, “è lontano da un livello consolidato di maturità” (Sarah Pelosi, Account Director SAMY Italy).

Il settore, nonostante la ribalta internazionale di figure come Chiara Ferragni o Mariano Di Vaio, è lontano da un livello consolidato di maturità”
Sarah Pelosi, Account Director SAMY Italy

Il modello tradizionale – influencer lifestyle generalisti, con audience enormi ma poco mirate – domina ancora. La vicenda Pandorogate del 2023 ha incrinato ulteriormente la fiducia, portando alla cosiddetta “Ferragni Law” sulla trasparenza nelle campagne benefiche. Non sorprende quindi che il consumatore italiano sia sempre più scettico e che stia crescendo un sentimento anti-consumistico.

Aggiungiamoci la saturazione: troppi profili che dicono le stesse cose, collaborazioni forzate, un pubblico stanco. In questo contesto, come può una startup sperare di ottenere un ritorno concreto affidandosi alla strategia dell’ennesimo post sponsorizzato?

Tra specializzazione e UGC: uno spiraglio

Il report indica però anche un sentiero di evoluzione. In Italia sta emergendo una nuova generazione di creator più verticali – dal food locale alla sostenibilità, fino al gaming – capaci di coltivare community più autentiche. Parallelamente cresce l’interesse verso i contenuti generati dagli utenti (UGC), ancora acerbo ma potenzialmente rivoluzionario: meno testimonial pagati, più voci spontanee e credibili.

Pelosi suggerisce due passi concreti:

  1. più strategia e dati per superare le scelte basate su intuizione e contatti personali;
  2. più formazione: un’accademia per brand e marketer, capace di insegnare a leggere i numeri, fare forecast e impostare KPI sensati.

Il modello SAMY: un termometro della maturità

Per misurare la distanza che separa i pionieri dai dilettanti, SAMY ha sviluppato un framework in quattro pilastri: Selection, Strategy, Creativity, KPI & Reporting. Su questa base ha definito quattro stadi di maturità: Rookie, Explorer, Strategist, Elite.

Oggi, la maggior parte delle startup italiane si colloca ancora tra Rookie ed Explorer: selezione fatta “a sentimento”, creatività lasciata agli influencer senza linee guida, campagne isolate e reporting ridotto a follower e like. In altre parole, il livello più rischioso: tanto costo, poca scalabilità, risultati difficili da misurare.

Il passaggio a Strategist o Elite richiede investimenti in strumenti (analytics, social listening, content audit), integrazione cross-team, contratti di medio periodo e KPI che vadano oltre il tasso di engagement. Non è un caso che i mercati più maturi – Regno Unito e Spagna – abbiano già spostato il focus da reach e vanity metrica conversioni reali e relazioni di lungo termine.

La domanda scomoda: serve davvero?

Ed eccoci al punto: a cosa serve l’influencer marketing se metà dei marketer non sa misurarne i risultati? Forse a rassicurare il board che “si sta facendo qualcosa di moderno”, forse a nutrire l’ego di chi viene intervistato da riviste di settore. O forse semplicemente a sostenere un’industria – quella delle agenzie e dei talent – che di questo vive.

Per le startup, il consiglio è uno solo: leggete il report. Non accontentatevi della narrazione patinata. Guardate i numeri, chiedetevi se i vostri obiettivi sono consapevoli e misurabili, e soprattutto domandatevi se davvero un post su Instagram è lo strumento migliore per raggiungerli.

Perché alla fine, l’unica metrica che conta non è il numero di cuoricini sotto un reel, ma il fatturato.

Il mercato italiano degli influencer è davanti a un bivio: continuare a nutrire un sistema saturo e autoreferenziale, o investire in professionalità, dati e strategie consumer-first.

Per le startup, l’influencer marketing può essere una leva, ma solo se trattato come un canale da integrare con metodo, non come un rito di passaggio per sentirsi parte dell’ecosistema digitale.

Il resto – visibilità effimera, vanity metric, hype mediatico – è solo rumore.

Takeaways per startup

Cosa imparare dal report SAMY – Influencer Marketing Maturity Model

  1. Non innamoratevi dei numeri facili: follower e like non bastano. Cercate conversioni e KPI concreti.
  2. Micro > Macro: i piccoli influencer di nicchia portano più fiducia che le celebrity sature.
  3. Integrate, non improvvisate: l’influencer marketing deve far parte di una strategia più ampia, non di un post spot.
  4. Dati, non intuito: usate strumenti di social listening, content audit e benchmark, non solo “contatti personali”.
  5. Partnership > one shot: costruite rapporti di medio periodo con i creator, non semplici sponsorizzazioni.
  6. Formazione interna: create competenze in azienda o affidatevi a partner che sappiano misurare davvero i risultati.
  7. ROI o niente: se non potete dimostrare il ritorno, fermatevi e ripensate il budget.

Link al report 

 

Imprenditore, angel investor ed editore. Da quasi 30 anni pubblica in italiano ed inglese approfondimenti su startup, imprenditoria, italiani all'estero e rigenerazione di piccoli comuni italiani. Suoi contributi sono apparsi su Millionaire Magazine, Vita Non Profit Magazine, Azienda Top, Smart Working Magazine, Nomag, Italians Magazine e National Geographic Traveller. Le sue newsletter raggiungono ogni settimana oltre 35 mila subscriber.

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