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Il giorno in cui il private equity si bevve la community: la lezione (amara) di BrewDog

Nel mondo delle startup ci sono storie che ispirano, storie che insegnano, e poi ci sono quelle che fanno entrambe le cose — ma solo se lette fino in fondo. La parabola di BrewDog, il birrificio scozzese nato da un crowdfunding punk e diventato un caso di studio sulla predazione del private equity, appartiene a quest’ultima categoria.

Il Financial Times ha pubblicato un lungo reportage, “Down in one: how private equity swallowed the BrewDog Unicorn – Thanks for all the money, Punks” (link qui), che ricostruisce con precisione chirurgica come un’impresa nata come simbolo di partecipazione si sia trasformata in una lezione dura per chi crede nella finanza collaborativa.

Parlo anche per esperienza diretta. Anch’io, con circa 500 sterline “curiose”, entrai nei primi round di Equity for Punks: il crowdfunding era per me un esperimento, un test sul potere delle community applicato al business. Non capivo nulla di birra (e ammetto che, vivendo da anni in UK, è quasi una colpa), ma capivo bene la forza rivoluzionaria di quel modello. Con il tempo, però, l’entusiasmo ha lasciato spazio a un certo disincanto. Non tanto per lo stile aggressivo del fondatore James Watt, quanto per la ferocia silenziosa con cui i capitani della finanza sono entrati in scena, prendendosi tutto e lasciando ben poco indietro.

Da sogno punk a incubo finanziario

Fondata nel 2007 da James Watt e Martin Dickie, BrewDog è stata uno dei primi esempi europei di startup cresciuta “dal basso” grazie alla forza della community. Con Equity for Punks, oltre 130.000 investitori retail hanno creduto nel sogno di rivoluzionare l’industria della birra artigianale. Nessun VC, nessuna banca: solo migliaia di appassionati che mettono mano al portafoglio e al passaparola. Crowdfunding allo stato puro, quando la parola significava ancora “fiducia”.

Per dieci anni, il modello funziona: crescita esplosiva, bar in tutto il mondo, un brand cult. Ma nel 2017, il cambio di passo: BrewDog firma un accordo con TSG Consumer Partners, fondo di private equity americano. L’intesa prevede un investimento da 213 milioni di sterline in cambio di azioni privilegiate con un rendimento composto annuo del 18%. Una cifra che, sulla carta, porta la valutazione dell’azienda a oltre un miliardo di dollari. Ma il prezzo reale si vedrà solo dopo.

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(foto dal sito di James Watt)

Il giorno in cui il “punk” ha perso la voce

Per far entrare TSG, BrewDog riscrive parte dello statuto societario, elimina il diritto di prelazione e ristruttura le azioni fondative. Di fatto, cede il controllo economico dell’azienda a un soggetto che condivide poco o nulla dello spirito punk e partecipativo che l’aveva resa grande.

Nel giro di pochi anni, il sogno comincia a sfilacciarsi: vendite che rallentano, IPO sempre rimandata, conti in rosso e una cultura aziendale finita sotto accusa per comportamenti tossici. E i famosi Equity Punks? Silenzio. Le azioni in mano ai piccoli investitori valgono poco o nulla. Anche la quota personale di Watt è probabilmente azzerata. La community che aveva costruito il marchio è stata svuotata di valore e voce, fagocitata da un meccanismo finanziario costruito su rendimenti garantiti per pochi, a scapito di molti.

Il crowdfunding ha funzionato. È il private equity ad aver fallito.

La lezione più importante di questa storia, e che troppo spesso si dimentica, è che il crowdfunding ha funzionato benissimo. Ha costruito valore, consenso, identità. Ha trasformato clienti in soci, fan in ambasciatori, una birra in un brand globale.

È il passaggio al private equity ad aver generato lo squilibrio, con clausole sbilanciate, strumenti finanziari opachi e una cultura dell’exit incompatibile con la pazienza e la fiducia su cui il crowdfunding si fonda.

Non si tratta di demonizzare l’investimento professionale. Ma serve ricordare che chi costruisce con la community ha una responsabilità diversa: quella di non tradirla nel momento in cui “fa il salto”. Quando una startup fondata sull’entusiasmo collettivo cede al private equity senza paracaduti o protezioni, non vende solo quote. Vende il cuore della propria storia.

Costruire insieme, decidere insieme

Per i founder di oggi, c’è una domanda da tenere a mente: quale futuro stai promettendo alla tua community quando raccogli capitali in crowdfunding? È solo una tappa per alzare la valutazione e puntare alla exit? O è davvero una visione condivisa e a lungo termine?

Il caso BrewDog dimostra che il valore di una community non si misura solo in equity o in ROI. Si misura in relazioni, reputazione, fiducia. E quando la fiducia viene compromessa, ricostruirla è quasi impossibile — anche con una valigetta piena di milioni.

C’è chi dice che BrewDog abbia fatto “il più costoso errore professionale” della sua storia. Ma l’errore non è stato un typo in un bonifico (come ha scritto ironicamente Watt). È stato dimenticare chi ha costruito davvero quel sogno.

Morale della storia: chi costruisce una startup con la forza della community, non può pensare di monetizzarla con le regole della finanza tradizionale senza pagarne un prezzo altissimo.

Imprenditore, angel investor ed editore. Da quasi 30 anni pubblica in italiano ed inglese approfondimenti su startup, imprenditoria, italiani all'estero e rigenerazione di piccoli comuni italiani. Suoi contributi sono apparsi su Millionaire Magazine, Vita Non Profit Magazine, Azienda Top, Smart Working Magazine, Nomag, Italians Magazine e National Geographic Traveller. Le sue newsletter raggiungono ogni settimana oltre 35 mila subscriber.

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